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L’illusione della neutralità: sull’identità smarrita nella comunicazione del settore legale

Nel tentativo di apparire impeccabili, molti studi legali hanno adottato uno stile comunicativo così uniforme da rischiare di cancellare proprio ciò che vorrebbero esprimere: la loro unicità.

C’è un paradosso che percorre in modo sotterraneo, ma sempre più evidente, la comunicazione nel mondo legale: nel tentativo legittimo di apparire affidabili, professionali, rigorosi – in una parola, credibili – molti studi legali finiscono per assumere toni, linguaggi e formule così uniformi da generare un effetto diametralmente opposto a quello desiderato: la completa indistinzione.

Laddove l’intento sarebbe quello di rassicurare, il risultato è spesso una narrazione anonima, ripetitiva, incapace di restituire l’identità profonda di chi comunica. La promessa, quasi sempre implicita, è quella di serietà, competenza, rigore. Ma queste qualità, per quanto fondamentali, non bastano a rendere uno studio memorabile agli occhi di chi legge, ascolta o cerca un interlocutore in cui riconoscersi. Se ogni sito, ogni intervista, ogni post social ripropone le medesime parole, le stesse immagini istituzionali, gli stessi abstract valoriali, ci si chiede legittimamente: dove finisce il contenuto autentico e dove inizia la maschera collettiva di un settore che teme, ancora, di esporsi veramente?

Si assiste così a un fenomeno di auto-neutralizzazione comunicativa, in cui la prudenza – spesso necessaria e comprensibile, soprattutto in ambito legale – si trasforma in cautela eccessiva, fino a rendere irriconoscibili le sfumature che distinguono un approccio da un altro, una visione da un’altra, una cultura professionale da qualsiasi altra. L’identità, anziché essere la base da cui partire per costruire la comunicazione, viene trattata come un elemento da levigare, smussare, contenere.

Ma comunicare non significa esporsi in modo narcisistico, né tanto meno adottare toni eccentrici per il puro gusto di differenziarsi. Significa, piuttosto, assumersi la responsabilità di restituire, con coerenza e misura, una visione del proprio lavoro che sia leggibile, contestualizzata, non intercambiabile. In questo senso, comunicare bene non significa inventare qualcosa che non c’è, ma saper raccontare ciò che già esiste – e che spesso, per paura o per inerzia, rimane implicito.

Vi è una differenza sostanziale tra il tono e la voce. Il tono è modulabile, può variare in funzione dell’occasione, del pubblico, del mezzo. La voce, invece, è unica, non replicabile, e dovrebbe emergere come cifra costante della presenza pubblica di ogni realtà professionale. Eppure, ciò che si osserva, troppo spesso, è una progressiva rarefazione delle voci a vantaggio di un tono medio, rassicurante, ma fondamentalmente impersonale.

Non si tratta di “comunicare di più” ma di comunicare con più verità e profondità: con più coraggio. Avere il coraggio di raccontare ciò che si è, nel modo in cui si è, senza timore di apparire diversi, perché è proprio nella differenza – non nell’uniformità – che si radica ogni reputazione solida.

Il rischio più grande, oggi, non è quello di sbagliare tono. È quello di risultare invisibili. E la vera invisibilità non è il silenzio, ma il parlare come tutti gli altri.