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Come e perché far crescere le seconde linee: una riflessione sulla continuità, sulla reputazione e sulla struttura degli studi legali

Far crescere le seconde linee non è un gesto di generosità né una misura da attivare soltanto quando si teme l’uscita di un partner, ma rappresenta l’operazione strategica attraverso cui si costruisce una squadra che non si regge sulla centralità di pochi, bensì su una distribuzione reale e credibile di competenze, autorevolezze e responsabilità. È questa architettura condivisa, e non l’energia di singole individualità, a rendere un dipartimento solido nel tempo, capace di reggere ai movimenti del mercato e ai percorsi personali di ciascuno, senza esporre lo studio alla fragilità di un modello che vive e muore con i suoi vertici.

Negli studi legali, la crescita delle seconde linee viene spesso dichiarata come un obiettivo comune e perfino come un valore organizzativo, tuttavia nella pratica quotidiana fatica a diventare un processo strutturato e continuativo. Le ragioni sono molteplici e si intrecciano con la storia degli studi, con le dinamiche interne, con i modelli di leadership ereditati da altre stagioni professionali. E soprattutto con un timore, talvolta taciuto, talvolta appena sussurrato, che riguarda la possibilità che rendere visibili i collaboratori più talentuosi finisca per accelerare la loro ambizione, esponendo lo studio al rischio di perderli.

È una preoccupazione comprensibile, quasi istintiva, ma è anche una preoccupazione che produce spesso l’effetto opposto rispetto a quello desiderato, perché un professionista che dimostra talento, visione e capacità di leggere la complessità dei dossier è anche un professionista che ha bisogno di sentirsi riconosciuto, esposto, considerato parte integrante del posizionamento esterno dello studio. Quando questo riconoscimento non arriva, quando la reputazione resta concentrata sulle figure apicali e i giovani più forti vengono confinati a un ruolo operativo privo di visibilità, ciò che si genera non è fedeltà, ma disaffezione. E la disaffezione è la forma più silenziosa e più irreversibile di mobilità.

C’è poi un aspetto ancora più delicato, che riguarda non tanto l’ambizione dei singoli, quanto la continuità degli studi e la loro capacità di preservare, nel tempo, la solidità dei dipartimenti. Gli studi italiani, più di quelli internazionali, tendono a costruire la propria reputazione attorno a figure fortemente caratterizzanti, partner che nel corso degli anni hanno costruito relazioni, guidato team, rappresentato l’identità di un’intera area di pratica. Tuttavia questa forza, indiscutibile sul piano simbolico, può trasformarsi in una vulnerabilità quando la struttura si accorge di non aver preparato nessun altro ad occupare quello spazio, quando la crescita delle seconde linee è rimasta un’intenzione e non è diventata un percorso, quando l’autorevolezza del dipartimento coincide quasi totalmente con una singola biografia.

È in questi momenti, talvolta inattesi e imprevedibili, che diventa evidente quanto sia fragile un modello che affida a un solo partner l’intera responsabilità reputazionale di una practice. La fuoriuscita di un professionista molto visibile, può generare una percezione di vuoto, può alimentare interrogativi tra i clienti, può aprire una fase di transizione complessa da gestire. Ma se lo studio ha investito nel tempo sulla reputazione delle seconde linee, se Salary Partner, Counsel e Senior Associate sono già riconosciuti come punti di riferimento credibili, se il mercato percepisce la practice come un organismo corale e non come la proiezione di una sola figura, allora anche un momento di cambiamento viene attraversato con minore apprensione.

È questa la ragione per cui l’accompagnamento alla costruzione del proprio posizionamento e quindi della crescita, non è un progetto dedicato ai singoli, ma una leva di stabilità per l’intero studio. Perché un team che parla con più voci, che ha visibilità diffusa, che è percepito come plurale e strutturato, non teme il cambiamento ma lo attraversa senza smarrire la fiducia dei clienti, la qualità del lavoro, la coerenza della propria reputazione.

Da qui discende il tema del come, che non riguarda una serie di strumenti da applicare meccanicamente, ma una mentalità da coltivare al proprio interno. Far crescere le seconde linee significa concedere loro lo spazio per costruire una propria voce, non come proiezione di quella del partner, ma come espressione autonoma del valore che portano allo studio. Significa accompagnarli nei rapporti con la stampa, sostenerli nel percorso verso le directories e formarli al business development.

Significa, soprattutto, comprendere che la visibilità non è una concessione, ma una forma di investimento. Un investimento nella continuità, nella stabilità, nella maturità di una struttura. Un investimento nella capacità di uno studio di esistere al di là dei suoi fondatori e delle sue figure simboliche, e di costruire una leadership che non nasce dall’urgenza del momento, ma da una preparazione lenta e consapevole.

Il vero rischio, oggi, non è far crescere chi è bravo. Il vero rischio è scoprire, quando la necessità si presenta, che lo studio non ha costruito nessuno che possa assumere con naturalezza e credibilità il ruolo di capo della practice che fino al giorno prima sembrava indiscutibile.