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La crisi del filtro: quando l’informazione giuridica perde le sfumature

C’è una convinzione diffusa, alimentata dal mito della disintermediazione, secondo cui nell’ecosistema comunicativo contemporaneo il filtro tra chi produce informazione e chi la riceve sarebbe ormai quasi scomparso. Ma questa idea, per quanto suggestiva, è profondamente ingannevole. Il giornalista, nella sua funzione di intermediario esiste ancora, eccome: continua a rappresentare una figura indispensabile per la costruzione del senso pubblico dei fatti. Solo che oggi è costretto a operare dentro un sistema che ne comprime i tempi, ne riduce gli spazi di approfondimento, ne erode progressivamente la possibilità stessa di esercitare quella funzione interpretativa che, fino a pochi anni fa, ne definiva la responsabilità e la statura professionale.

La velocità è diventata la misura di tutto. Non è più la completezza dell’informazione a determinare la sua rilevanza, ma la tempestività con cui essa riesce a inserirsi nel flusso ininterrotto dell’attenzione collettiva. In questa corsa affannosa a non “bucare” la notizia, a non lasciare che altri la diffondano prima, si sacrifica inevitabilmente la profondità in favore dell’immediatezza, l’analisi in favore dell’impressione, la precisione in favore della semplificazione. Eppure, nel diritto, più che in qualsiasi altro linguaggio, la semplificazione non è solo una perdita di forma: è una perdita di verità.

Un’espressione scelta male, un titolo formulato con troppa leggerezza o con troppa urgenza, una citazione riportata fuori contesto possono mutare radicalmente il significato di una vicenda, alterare la percezione di una persona, incidere sulla reputazione di un’impresa o di un intero sistema. Nel linguaggio giuridico, ogni parola è una struttura di peso specifico: sottrarle il suo valore, o sostituirla con un sinonimo impreciso, equivale a distorcerne la funzione. Nell’uso corretto o improprio delle parole c’è la distanza che separa il sospetto dalla prova, il dubbio dall’accertamento, la percezione dalla verità. Cancellare quella distanza  o, peggio,  non accorgersi della sua esistenza vuol dire rendere il racconto incapace di distinguere tra il fatto e la sua interpretazione.

Ciò che stiamo vivendo non è, dunque, la scomparsa del filtro, ma la sua progressiva fragilità: un indebolimento dovuto non all’incapacità di chi racconta, ma alla pressione del tempo e dell’algoritmo, che esigono risposte rapide in un contesto in cui la verità, per sua natura, richiede lentezza, contraddittorio e verifiche. Il diritto si fonda sulla proporzione e sulla pazienza, sulla possibilità di argomentare prima di concludere, di accertare prima di giudicare. Ma la comunicazione contemporanea, piegata alle logiche della viralità e del clickbait, non tollera la sospensione del giudizio: pretende posizioni, schieramenti, allusioni che forniscano un senso compiuto a ciò che si sta raccontando. E così il discorso pubblico perde la sua tridimensionalità e diventa piatto e troppo spesso polarizzato.

Mai come oggi il linguaggio della giustizia è diventato di dominio pubblico, e mai come oggi è stato rappresentato con così scarsa fedeltà alla sua complessità. Il diritto, che vive di sfumature e di equilibrio, viene tradotto in slogan e categorie morali senza che nessuno si chieda più se tra questi estremi non esistano infinite gradazioni. È in quelle gradazioni, invece, che si annida la parte più viva e più vera della giustizia: quella che resiste alla riduzione a spettacolo, quella che non si lascia imprigionare dal ritmo incessante della cronaca.

Rivendicare il valore del filtro, inteso non come barriera, ma come strumento di discernimento, significa, in definitiva, rivendicare il valore del tempo e della competenza. Significa riconoscere che la trasparenza, senza contesto, non è sinonimo di chiarezza ma di rumore; che la pluralità delle fonti, se priva di mediazione, non produce verità ma disorientamento; che la comunicazione, per essere libera, deve anche essere rigorosa. E forse proprio questa è la sfida culturale più urgente del nostro tempo: reimparare a convivere con la complessità, ad accettare che la verità giuridica non può essere ridotta a un titolo, né semplificata in una manciata di righe, né affidata al giudizio istintivo del pubblico digitale.

Perché ogni volta che rinunciamo alle sfumature, ogni volta che cediamo alla tentazione di spiegare troppo in fretta, di ridurre ciò che è complesso a ciò che è comprensibile, rinunciamo a una parte della verità. E in una società che ha sostituito la profondità con la visibilità, difendere la complessità non è solo un atto intellettuale: è una forma di responsabilità civile.

Chi si occupa di comunicazione legale conosce bene la fragilità di questo equilibrio.

Sa che dietro ogni parola scelta per spiegare una vicenda giudiziaria si nasconde una responsabilità, perché il linguaggio non si limita a raccontare i fatti: li orienta, li interpreta, talvolta li deforma. E sa anche che la semplificazione, tanto più seducente quanto più urgente è il contesto, può trasformarsi, senza che ce ne accorgiamo, in un’arma capace di generare danni profondi e difficilmente reversibili. Una sfumatura taciuta, un’aggettivazione eccessiva, una sintesi che traduce invece di restituire: bastano poche scelte, apparentemente innocue, per compromettere il rapporto tra realtà e percezione.

La reputazione è un bene fragile soprattutto nell’era dell’informazione, costruito nel tempo e vulnerabile al linguaggio. Difenderla significa anche difendere la complessità dei racconti che la circondano, rifiutando la scorciatoia del bianco e nero e accettando l’impegno di restituire il mondo nella gamma dei suoi grigi. Perché solo chi sa riconoscere le sfumature e ha il coraggio di custodirle, può davvero dirsi capace di raccontare la verità.